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Di lobbying e lobbisti, parliamone

Dipinto come corrotto faccendiere e massone, il lobbista è una figura professionale con tutti i crismi, anche in Italia dove tuttavia la regolamentazione della professione e delle pratiche di lobbying stenta a decollare e resta a metà del guado, impantanato nel farraginoso processo legislativo italiano.


Articolo pubblicato su Opinio Juris in data 19 marzo 2017.

Di Anita Nappo

È comune ritenere che sistema e rifugga da ciò che non si conosce, come nel caso del lobbying in Italia, tanto sconosciuto, quanto temuto. Nonostante il 2016 sia stato definito dagli addetti ai lavori, come l’anno in cui l’Italia si è resa conto che lobbisti e società di lobby sono vivi e attivi in mezzo a noi, e benché si sia dato inizio a un’iniziativa legislativa che pochi eguali ha nella storia del nostro paese, il termine lobbying in Italia continua a essere associato a pratiche poco trasparenti e al limite del moralmente accettabile.

Tale valutazione e rigetto diffuso tra cittadini, e ben più grave, talvolta nelle stesse istituzioni, è figlia della mancanza di conoscenza di cosa sia il lobbying, in quali pratiche si eserciti la professione di lobbista. Inoltre, l’azione dei media non ha di certo contribuito alla promozione di un’immagine scevra di connotazioni negative del lobbista, laddove sovente si ricorre al termine in occasione di scandali, magari legati al neo-introdotto reato di traffico di influenze illecite (1), o collegato alla figura di faccendiere o del massone.

A cascata, il più tangibile degli effetti reali di questa percezione e cattiva conoscenza del lobbying, si riflette nella conseguente incapacità di definirne i confini precisi così da arrivare ad una regolamentazione delle azioni di lobbying, pratica già disciplinata presso i governi di 11 paesi europei, gli Stati Uniti e le istituzioni europee.

In Italia, il termine lobby è tradotto con l’espressione gruppo di pressione che si fa portatore di interesse particolari come oggetto della propria azione. Di origine latina (da lobia, loggia), il termine lobby ha assunto nell’800 in Gran Bretagna, l’accezione politica più vicina all’uso che se ne fa oggi. Nel Parlamento di Westminster, la lobby è infatti la grande anticamera della House of Commonse in seguito divenuto tropo con cui si fa riferimento all’area del Parlamento in cui i rappresentanti dei gruppi di pressione cercano di entrare in contatto con i membri del Parlamento.

E ancora, per estensione semantica si è iniziato ad indicare questi rappresentanti e l’attività da essi esercitata con i termini lobbista e lobbying (2). Cercando di trarre una definizione attuale e alquanto inclusiva, fare lobbying significa agire per influenzare il processo decisionale attraverso azioni di comunicazione, informazione, volte a tutelare interessi persuadendo, influenzando e sollecitando i decisori pubblici per fini legittimi.

Il lobbista, parimenti è colui che per professione, informa il decisore pubblico con dettagli e comunicazioni volte a tutelare un interesse legittimo al fine di effettuare scelte libere e consapevoli (3). L’adesione ad una lobby e l’inquadramento del fenomeno lobbistico deve essere inquadrato in contesto de-ideologizzato, poiché aderire o agire per un interesse non implica vi sia coincidenza, né parziale né totale, ideologica coll’interesse rappresentato (è il caso, ad esempio, degli operatori delle agenzie di lobbying e società di public affairs), ma si concretizza in un supporto a singole e specifiche negoziazioni con le istituzioni. Rappresentare un interesse per conto di terzi potrebbe, e dovrebbe, essere intesa come un’opportunità per il decisore pubblico di apprendere dettagli di casi specifici, del più ampio panorama della materia su cui si va a decidere.

Per buonsenso, il decisore pubblico non è un tuttologo, e dunque l’afflusso di informazioni e influenze da parte dei lobbisti non può che aumentare la conoscenza del legislatore sulla materia in esame, purché questo afflusso sia regolamentato e, come si diceva, per fini legittimi. Tuttavia, non bisogna immaginare una cospirazione a detrimento della figura del lobbista se siamo giunti finora a questo livello di diffidenza verso l’universo del lobbying, né bisogna dimenticare che mancando di un “trasporto” ideologico, il lobbista agisce per interesse economico, come una sorta di mandatario del cliente rappresentato. L’alone di mistero e di mistificazioni che circonda la professione insieme a dei casi di coinvolgimento di lobbisti in affari di corruzione o influenze illecite, ha prodotto e aumentato la diffusione della percezione presso il più vasto pubblico della commistione con l’opacità e il malaffare.

Pertanto, aumentare la consapevolezza del lavoro svolto dalle lobby, responsabilizzerebbe non solo i lobbisti stessi e i decisori pubblici, producendo anche un effetto positivo di rimbalzo sulla fiducia dei cittadini sulle azioni del decisore pubblico. Ma gli effetti positivi di una maggiore trasparenza porterebbe anche ad una semplificazione delle relazioni e interazione tra imprenditori e legislatore.

A tal proposito, è interessante citare il rapporto stilato da Transparency International Italia sullo stato dell’arte del lobbying in Italia e dell’iniziativa di regolamentazione portata avanti dal legislatore nazionale a confronto con la realtà di regolamentazione messa in essere dalle istituzioni europee.Allo stato attuale, come definito dall’accordo inter-istituzionale sul registro per la Trasparenza tra Parlamento e Commissione Europea del 2014, la professione di lobbista comprende ogni attività svolta allo scopo di influenzare direttamente o indirettamente l’elaborazione o l’attuazione delle politiche e i processi decisionali delle istituzioni, a prescindere dal luogo in cui sono condotte e dai canali o mezzi di comunicazione impiegati.

Regolamentazione cercasi – missione trasparenza

In Italia il lobbying è un fenomeno sempre più diffuso ma al tempo stesso difficile da conoscere e dunque regolamentare.Prendendo spunto dal report di Transparency International Italia “Lobbying e democrazia: la rappresentanza degli interessi in Italia” è possibile confermare, difatti, come la percezione del lobbying in Italia sia minata dallo scarso livello di accesso da parte dei cittadini alle informazioni sui gruppi di pressione (categoria afferente al criterio della trasparenza), dall’inadeguatezza degli standard e comportamenti etici dei lobbisti e dei decisori pubblici (per quanto riguarda l’integrità) e l’eguaglianza di rappresentanza e partecipazione nel processo decisionale (carattere della parità di accesso).

Altra faccia della stessa medaglia, politici e decisori istituzionali tendono a tenere nascoste o rendere pubbliche il minimo indispensabile le relazioni che invece intercorrono tra istituzioni e lobbisti (5). Come già sostenuto, la mancanza di regolamentazione della professione e della pratica alimenta il clima di confusione che rende il lobbying preda facile dell’affrettato giudizio del vasto pubblico e del discorso populista imperante che vede del marcio ovunque.

Un chiaro segnale che tuttavia qualcosa si stia muovendo, lentamente, ma nel verso giusto giunge da entrambi i lati. Se da un lato sempre più studi professionali dichiarano di svolgere l’attività di lobbying e le aziende si dotano di uffici di relazioni istituzionali e lobbisti in-house, il Ministero dello Sviluppo Economico ha lanciato sul finire del 2016 un Registro della Trasparenza sul modello di quello europeo per l’iscrizione dei soggetti interessati a perpetrare azioni di lobbying presso il succitato ministero (6). Plasmato su modello di quello che garantisce l’accesso ai palazzi delle istituzioni europee a Brussels, il Registro italiano inaugurato dal Ministro Calenda funziona su base volontaria, e richiede l’iscrizione a tutti i soggetti, in forma singola o associata, che conducono attività di lobbying, come agenzie specializzate in public affairs, studi legali che svolgono azioni di advocacy, associazioni di categoria, organizzazioni non governative, imprese, centri di ricerca e fondazioni.

L’iscrizione del registro garantisce il diritto di accesso al Ministero e costituisce titolo necessario per incontrare funzionari e addetti ai lavori all’interno del ministero. Inoltre, i soggetti iscritti al Registro avranno accesso a una Banca dati con le informazioni di interesse sui vari dossier normativi, e vedrebbero riconosciuta la possibilità di partecipare (ufficialmente) all’attività legislativa con proposte di modifica, invio di note e analisi. Nel frattempo, il dibattito sull’adozione di un regolamento che disciplini le attività di lobbying in discussione alla Camera dei Deputati, mentre enti locali e regioni si dotano di propri registri della trasparenza a tiratura locale. Esempio virtuoso, il Consiglio regionale della Lombardia che ha approvato il regolamento che dà attuazione della legge sulla rappresentanza di interessi (7).

Interessante qui ricordare che l’iscrizione al Registro della Trasparenza europeo comporta anche l’accettazione del codice di condotta, mentre questo elemento è ancora latente nel dibattito italiano. Possibile da quanto finora detto, delineare due criticità connesse al Registro italiano e al suo funzionamento. Da un lato, la caratteristica della volontarietà dell’iscrizione al registro, dove tuttavia a decisione di iscriversi da parte dei gruppi di interesse potrebbe essere letta come una dichiarazione di intenti, espressione di un’adesione a una comunità che si stringe intorno a valori e rispetti dei criteri fissati, per il fine di garantire la trasparenza.

L’altra criticità del registro è nel limitare la comunicazione dell’avvenuto incontro tra portatore di interessi e decisore, all’interno dei palazzi del potere. Il Registro garantisce titolo d’accesso ai non addetti ai lavori al Parlamento, ad esempio, ma di certo non monitora gli incontri tra decisore e lobbista appena al di fuori delle mura del Parlamento, in bar e gelaterie della zona, che hanno visto nascere numerosi accordi e stringere forti intese tra lobbisti (occulti) e parlamentari. Dunque, sarebbe opportuno anche formalizzare la buona pratica di rendere pubblici oggetto e partecipanti agli incontri con il decisore, con l’istituzione di una sorta di agenda pubblica e accessibile di ministri, parlamentari e decisori pubblici.

Che l’incontro sia registrato e accessibile asserve alla necessità di maggiore trasparenza e delle “pari opportunità” di accesso per tutti i portatori di interesse, contingente e concorrente. Tra i caratteri più controversi del processo di lobbying si ha l’utilizzo del meccanismo del cosiddetto fenomeno del “revolving door: poiché per essere un “buon lobbista” è necessaria, tra le altre, una buona conoscenza delle politiche, dei processi e di consolidati rapporti con i soggetti che operano in un determinato ambito, i professionisti del settore sono spesso scelti tra le fila di ex addetti ai lavori (ex parlamentari, consulenti o dirigenti) di società rilevanti nel settore in questione.

Tale pratica solleva forti dubbi su possibili conflitti di interessi derivati da queste strette interconnessioni tra pubblico e privato nonché lo sfruttamento di potere residuale di conoscenza d9i dossier e di personale nelle mani dell’ex di turno, basti pensare al polverone sollevato a Brussels dalla decisione dell’ex Presidente della Commissione Europea Barroso di accettare l’incarico di Direttore non-esecutivo presso la Goldman Sachs International.

Quale trattamento gli si corrisponderà, quando in qualità di rappresentante e portatore di interessi per la Goldman Sachs, Jose Manuel Barroso viaggerà a Brussels per discutere nel palazzo che lo ha visto protagonista di ben due mandati come Presidente della Commissione Europea. Il tema del periodo di attesa, cosiddetto cooling-offcosì come a chi spetterebbe la vigilanza sul registro e le pratiche di lobbying in Italia restano aperti e oggetto di dibattito.

Come sostiene Transparency International Italia nel suo report, non è l’attore in sé da sottoporre al giudizio dettato dalla dicotomia “lobbying per scopi positivi o negativi”. Il giudizio sull’oggetto dell’attività di lobbying e l’interesse portato dinnanzi al legislatore resta soggettivo circa le connotazione di “buono o cattivo”, figlio del proprio sistema di valore. Sono piuttosto le modalità con cui le azioni di lobbying sono portate avanti. Basti pensare come, quella che viene considerata generalmente una “buona causa” come la campagna per salvare le balene da parte di GreenPeace (anche questi ascrivibili come gruppo di interesse), sia stata condotta con azioni di sabotaggio e di attacco alle navi baleniere, causando dei danni economici e talvolta ambientali. Va da sé che sarà anche la persona e il professionista ad esser monitorato, insieme al suo operato.


Ogni decisione, ogni azione intrapresa dalle istituzioni ed enti, dal locale all’internazionale, lascia trasparire le linee di influenza che hanno portato a quella decisione e perché si sia arrivati a legiferare esattamente in quell’ambito specifico all’interno della pletora di possibili azioni necessarie o presunte tali, che il legislatore o in generale il decisore si trova dinnanzi. Anziché lasciare tutto in un non detto dal retrogusto opaco, non sarebbe meglio completare l’azione di regolamentazione della pratica ed allinearsi agli standard europei? A gran voce i lobbisti e le grandi firm del lobbying romano si sono espresse in favore dell’iniziativa durante le iniziative della settimana dell’amministrazione aperta (6-12 marzo 2017), dissentendo, come è ovvio che sia, sulle modalità della regolamentazione e la pertinenza di alcune proposte.

Riprendendo il leit motiv del dibattito tra i lobbisti romani che si dicono favorevoli allo sviluppo di una regolamentazione della pratica, è lecito chiedersi “possibile che i lobbisti non riescano ad esser lobbisti di essi stessi e influenzare il legislatore a decidere sulla regolamentazione della professione/agire professionale del lobbista?”.


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