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La lobby delle Big tech: 100 milioni l’anno per fare pressing sulla Ue

Aggiornamento: 13 set 2022

È quanto emerge dal report “The Lobby Network” del Corporate European Observatory: sono 612 le aziende e le associazioni che fanno pressioni sui policy maker, in particolar modo riguardo al tema regolatorio. Sul podio Google, Facebook e Microsoft. “Dma e Dsa rischiano di non bastare per limitare il potere delle piattaforme, serve intervenire anche sul fronte antitrust”


Articolo pubblicato su CorCom in data 2 settembre 2022.

Di Federica Meta


Una potenza di fuoco in grado di minare le democrazie e le regole della concorrenza. E che va fermata. Sono le conclusioni del rapporto The lobby network – Big Tech’s web of influence in the EU di Ceo (Corporate European Observatory), che fa una panoramica sullo sforzo di lobbying delle Big Tech sulla Ue, anche alla luce della nuova normativa che sta per entrare in vigore, Digital Markets Act e Digital Services Act.

Ammontano a 612 le aziende, gruppi e associazioni di imprese che fanno pressioni sulla policy dell’economia digitale dell’Ue, con oltre 97 milioni di euro all’anno. È tecnologia il primo settore per investimenti in lobbying, sorpassando farmaceutico, combustibili fossili, finanza e prodotti chimici.

Per quanto riguarda la concentrazione degli attori, all’interno del settore tech solo dieci aziende sono responsabili di quasi un terzo della spesa totale delle lobby tecnologiche: si tratta di Vodafone, Qualcomm, Intel, Ibm, Amazon, Huawei, Apple, Microsoft, Facebook e Google che muovono oltre 32 milioni di euro.

Al top ci sono Google che spende per le attività di lobby 5,8 milioni, Facebokk 5,5 milioni e Microsoft che ne spende 5,3. Al quarto posto Apple con 3,5 milioni. Per trovare una cinese dobbiamo arrivare in quarta posizione doce c’è Huawei con 3 milioni.

Dei gruppi più “potenti”, il 20% ha sede negli Stati Uniti e meno dell’1% in Cina o a Hong Kong.

Infine, le associazioni imprenditoriali che fanno lobby per conto delle sole Big Tech hanno un budget di lobbying che supera di gran lunga quello del 75% più povero delle aziende del settore digitale.

Il rapporto analizza lo sforzo di lobbying delle big tech dal punto di visto dell’accesso privilegiato presso i responsabili della Ue e la recente gestazione del pacchetto sul mercato servizi digitali (271 riunioni, il 75% delle quali con lobbisti del settore, con Google e Facebook in testa).





La narrazione lobbistica

La battaglia delle lobby tech si è spostata dalla Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio; l’impronta lobbistica delle Big Tech emerge soprattutto in alcune capitali dell’est come Tallinn, in Estonia, indica il rapporto.

Dopo gli scandali legati ad esempio alla violazione della privacy, alle pratiche anti-competitive o di elusione fiscale – secondo il rapporto – la narrazione lobbistica delle big tech si basa sul supporto pubblico a nuove regole “morbide” e alla configurazione delle nuove norme proposte per la regolamentazione del web come una minaccia per le pmi e i consumatori, allo sviluppo in termini geopolitici, con una iper-regolazione del web la Ue resterebbe indietro rispetto agli Stati Uniti e, soprattutto, alla Cina.

Lobbying indiretto e opacità

La lobby delle Big Tech si basa anche sul finanziamento di un’ampia rete di terze parti, inclusi think tank, pmi, associazioni di startup e consulenti legali ed economici per trasmettere i propri messaggi. Ci sono 14 gruppi di riflessione e Ong con stretti legami con le aziende Big Tech, indica il rapporto. Questi collegamenti spesso non vengono divulgati, offuscando potenziali pregiudizi e conflitti di interesse. L’etica e la pratica di queste organizzazioni politiche varia, ma alcune sembrano aver svolto un ruolo particolarmente attivo nelle discussioni sul pacchetto di servizi digitali, ospitando dibattiti esclusivi o distorti per conto dei loro finanziatori o pubblicando rapporti allarmistici. Le Big Tech hanno dichiarato il loro finanziamento delle think tank solo dopo essere state messe sotto pressione.

Come limitare il potere delle grandi piattaforme

Digital Markets Act e Digital Services Act rappresentano un’opportunità importante per limitare il potere delle grandi piattaforme digitali.

Ma, secondo Ceo, vanno implementati per renderli ancora più efficaci: il Dsa, ad esempio, deve includere regole che impediscano effettivamente la sorveglianza a scopo di lucro, che addomestichino i sistemi di raccomandazione e gli algoritmi che amplificano hate speech e fake news. Infine è necessario assicurarsi che le aziende non aggirino queste regole.

Ma bisogna anche affrontare la gigantesca concentrazione di potere economico nel settore. “Con l’enfasi posta sulle regole di comportamento nel Digital Markets Act – si legge nel report – l’Ue sta perdendo l’opportunità di andare oltre e creare nuovi strumenti strutturali per smantellare società troppo potenti nel settore digitale”.

A cominciare dalle norme antitrust per il controllo delle fusioni, ad esempio. “Acquisizioni ‘killer’ come la fusione Google/Fitbit120, che offre al gigante tecnologico un dominio ancora maggiore sui dati, non sono state bloccate con le attuali regole – ricordano gli esperti – La Commissione non ha colto l’occasione per farlo attraverso il Dma. Ma potrebbe ancora farlo con il sostegno del Parlamento europeo”.

Questa situazione dovrebbe essere, quindi, un campanello d’allarme per mettere in atto una regolamentazione più rigorosa in materia di lobby, sia a livello di Ue sia di Stati membri, e per creare nuovi strumenti che limitino lo strapotere delle Big Tech che altrimenti lo utilizzeranno per plasmare la legislazione secondo i loro interessi.






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