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Una legge su lobbismo con un salvacondotto tutto italiano

La trasparenza per i grandi “influencer” pubblici non può essere solo autocertificata

Articolo pubblicato su Policy Maker in data 2 novembre 2021.

Di Francesca Carnoso

Il sistema giuridico italiano a differenza di quello tedesco o statunitense non prevede una normativa del lobbying unificata per le proprie istituzioni regole a oggi valgono solo per Montecitorio e non per Palazzo Madama che, a differenza della Camera, non si è ancora mai dotato di una regolamentazione ad hoc.

Ma cos’è la lobby?

Lobby, nella definizione del Dizionario Treccani è “Termine usato negli Stati Uniti d’America, per definire quei gruppi di persone che, senza appartenere a un corpo legislativo e senza incarichi di governo, si propongono di esercitare la loro influenza su chi ha facoltà di decisioni politiche, per ottenere l’emanazione di provvedimenti normativi, in proprio favore o dei loro clienti, riguardo a determinati problemi o interessi […]”.


Portatori di interessi, lobbisti. Professionisti incaricati dalle grandi compagnie, dai gruppi economici di rilievo, di portare alla visione della politica le ragioni di un determinato provvedimento o di un cambiamento di un determinato orientamento in merito ad alcune questioni.

Di fatto, seppur da sempre connotate in modo negativo le lobby in Italia esistono da tempo, lo sono gli ordini professionali o i sindacati, per esempio, e dunque non necessariamente sono riconducibili a gruppi di influenza rispondenti a logiche di corruttele.

Dal 2016, proprio sulla scorta dell’approccio UE (e della vicenda delle dimissioni della ministra Guidi) su iniziativa dell’allora ministro Carlo Calenda si è data una consistente accelerata alla normativa con l’attivazione del “registro della trasparenza”, un elenco pubblico, visibile online: il registro della trasparenza prevede la necessità – non l’obbligo - per chi si accinge a incontrare ministro, viceministro e sottosegretari e in generale i vertici del Ministero, di registrare il proprio nome, cognome, la società o il gruppo per il quale si lavora, gli interessi che si intendono supportare attraverso l’incontro.

Chi si iscrive ha altresì la necessità di pubblicare e aggiornare il proprio profilo: dalla propria attività, dati finanziari relativi al gruppo di riferimento, fino a eventuali contributi e alle sovvenzioni o ai contratti di appalto ricevuti nell’ultimo anno dal Ministero.

Un registro cui è anche collegato un codice di condotta che impone agli iscritti di rispettare i principi di lealtà e trasparenza, non offrire accettare o richiedere somme di denaro o qualsiasi altra ricompensa, vantaggio o beneficio, sia direttamente che indirettamente tramite intermediari al fine dell’iscrizione e per distorcerne la relativa corretta partecipazione.

Di fatto, perché il lobbismo sia strumento di indagine del territorio, degli interessi economici o di esigenze di un particolare tessuto produttivo la questione dirimente è proprio quella della trasparenza a livello normativo e rendicontativo.

Stupisce dunque che nelle stanze della Commissioni Affari Costituzionali sia (dopo quasi 50 anni) finalmente in esame l’art 3 del DDL sul regolamento del lobbismo ma con una singolare cordata partitica trasversale ad excludendum dagli obblighi di trasparenza previsti dal testo le principali sigle costituite in rappresentanza di imprenditori e lavoratori, come Confidustria e i sindacati confederati Cgil, Cisl e Uil.

Per riprendere la corretta riflessione di Federico Anghelè di “The good Lobby” - perché i sindacati sarebbero esclusi e le associazioni di consumatori, paradossalmente, invece obbligate agli obblighi di trasparenza previsti dal testo?

La cordata sembra anomala, come pure la proposta, che non trova omologhi normativi oltreconfini.

Un salvacondotto tutto italiano che consentirebbe di sapere per filo e per segno di cosa si discute a Bruxelles (questo perché in Commissione Europea, così come accade alla Casa Bianca, esiste un piano intero dedicato alle “lobbies” e le stesse associazioni imprenditoriali e i principali sindacati italiani sono regolarmente iscritti al Registro della trasparenza delle istituzioni europee) ma di essere completamente all’oscuro delle dinamiche all’interno dei confini nazionali.

Un grande “regalo”, soprattutto per i sindacati confederali, potente infrastruttura democratica nel Paese che oltretutto seguono la disciplina delle norme di diritto comune degli artt. 36, 37 e 38 del Codice civile godendo ancora della non piena attuazione dell’art. 39 della Costituzione.

Il sistema previsto dall’art. 39 è di fatto a tutt’oggi inattuato a causa necessario controllo governativo, richiesto dal sistema costituzionale, sia riguardo alla struttura interna, che agli iscritti e alla loro consistenza numerica, consistenza il cui calcolo, sia per il comparto pubblico che privato, viene di fatto spesso agevolato dal meccanismo dell’addebito del contributo sindacale direttamente sulla busta paga.

Conseguentemente, dunque, l’accertamento dell’esistenza (e consistenza) delle OO.SS., nell’attuale struttura dell’ordinamento, non comporta ancora l’indagine su documenti che abbiano efficacia costitutiva della personalità, bensì la sola rilevazione della concreta attività che viene svolta nel campo di interessi proprio di questo tipo di associazioni.

Chiedere trasparenza alle grandi organizzazioni portatrici di interessi, inclusi i sindacati, chiedere di rendere pubblico anche il modo in cui vengono spesi i soldi dei lavoratori iscritti -cosa fino ad oggi inosabile- sarebbe invece senz’altro opportuno, e magari proprio i confederali potrebbero darne l’esempio.

Le somme sono importanti, se pensiamo infatti che per quanto ai grandi sindacati, la ritenuta diretta sullo stipendio del dipendente attraverso la delega sindacale è, mediamente dello 0,50%, si può stimare un incasso medio pro capite di 120-130 euro all’anno per 11,3 milioni di iscritti -dato di febbraio 2021-, il conto è presto fatto.

Potrebbe essere questa una contropartita politica rispetto ai delicati passaggi collegati alla legge di bilancio?

Al di là delle supposizioni e oltre le ipotesi di scappatoie alle regole di trasparenza, ben venga finalmente una legge sulla regolamentazione del lobbismo, dando però piena attuazione alla Costituzione con una conseguente legge ordinaria sulla consenta un pluralismo contrattuale sottoposto ai principi di libertà e di rappresentatività dei soggetti contraenti, proprio perché la trasparenza per i grandi “influencer” pubblici non può essere solo autocertificata.



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