Articolo pubblicato su Fortune in data 28 febbraio 2022
Di Francesco Clementi
Da anni oggetto di iniziative legislative, il cui esame più volte è stato avviato e non è mai giunto a compimento, la disciplina della cosiddetta attività di lobbying oggi forse può trovare una sua definitiva finalizzazione, regolamentando, nei processi decisionali in ragione della trasparenza e della partecipazione, la rappresentanza degli interessi, non soltanto quelli strettamente economici.
Un’univoca ed efficace regolamentazione delle attività di lobbying, la cui mancanza pesa molto nella realtà italiana, è necessaria innanzitutto per favorire la costruzione nel nostro Paese di un rapporto più trasparente tra decisore pubblico e portatori di interessi, tanto rispetto a quelli sociali quanto imprenditoriali.
Al tempo stesso, l’esistenza di una specifica legge può favorire l’emergere dall’opacità di tutti quegli attori che, simulando e fingendo di svolgere la professione di lobbista, in realtà operano come dei veri e propri faccendieri, senza alcun rispetto innanzitutto per quei canoni – definiti peraltro da decenni in Italia come all’estero – di professionalità, chiarezza, trasparenza e responsabilità.
Costoro invece, lontani dalle migliori pratiche della professione, esercitano forme di influenza del tutto improprie, rendendo quell’elemento costitutivo ed essenziale del metodo democratico proprio delle società complesse e multidimensionali – ossia la composizione e la valorizzazione, in modo delineato, dei legittimi interessi particolari – un fattore negativo, da stigmatizzare. E dunque, rendendo la nostra democrazia e i suoi assetti più fragili, ristretti, opachi. Ben venga dunque una legge in tema, che faccia risaltare, senza alcuna forma di ambiguità, pure quei casi di corruzione e di malfunzionamento della regolamentazione che hanno coinvolto sia i lobbisti sia i decisori pubblici in tanti anni, non soltanto nella democrazia italiana.
Tuttavia, pur avendo indubbi meriti nel colmare un vuoto normativo, l’attuale proposta di legge che disciplina l’attività di lobbying (dall’istituzione di un registro ad hoc presso l’Agcm secondo quanto già delineato innanzitutto dalla Camera dei deputati, all’introduzione di un periodo di un anno di ‘cooling-off’, cioè dalla astensione dalla partecipazione a tutte le questioni che coinvolgono un soggetto in una particolare situazione che coinvolga il suo interesse precedente), di certo essa non riesce ancora a mettere a fuoco fino in fondo alcuni elementi, che potrebbero essere meglio registrati.
Ad esempio, una semplificazione eccessiva nei ruoli di cooling-off tali da rendere uguali un ex ministro della Repubblica e un semplice assessore di un piccolo Comune: luoghi, questi ultimi, dove spesso si è talmente in pochi come cittadini che è già difficile in sé trovare persone disponibili a ricoprire cariche pubbliche. Oppure l’asimmetria di posizione tra le grandi organizzazioni (da quelle imprenditoriali e datoriali ai sindacati), che non devono essere sottoposte al controllo di trasparenza, in quanto iscritte d’ufficio come soggetti del dialogo, portatori di interesse, e gli altri, invece, per i quali questo test di ‘clear and present [potential] danger’, c’è. Infine, vi è un punto forse poco visto, ma che è il cuore oggi del problema: ossia il ruolo degli ex parlamentari. Sono costoro infatti i soggetti che oggi, operando in molti casi come lobbisti, cioè portatori di interessi particolari generalmente di tipo economico, sono fuori da ogni regola, venendo assoldati per la loro capacità, l’esperienza e proprio per la difficoltà che siano ‘tracciati’ nei palazzi delle decisioni politiche.
Così, in ragione del loro ruolo e dei vantaggi di posizione che ciò determina – dall’ingresso libero appunto nei palazzi, alla conoscenza dei decisori, alla non necessità di essere qualificati come lobbisti e dunque di sottoporsi alle regole già esistenti – gli ex parlamentari sono al di fuori di ogni professionalità certificata, lasciando così aperto proprio questo tema; una questione che mina da dentro la stessa legge, in quanto lascia aperta la possibilità di una vera ‘zona grigia’. Che sarà quella che poi impedirà la piena e completa emersione, anche nella percezione pubblica, di un lobbismo di qualità, proprio perché capace di favorire l’allargamento delle potenzialità che, tra libertà e decisione, gli ordinamenti democratici in piena trasparenza possono offrire.
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