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Europa digitale: “Meta, Amazon e Google fuori da lobbying Ue”


La richiesta di tre europarlamentari. Ingerenze nelle decisioni su Digital Markets Act e Digital Markets Act comprovate da una serie di documenti. Negli Usa scoppia il caso “conflitto di interessi”: investimenti dei regolatori nelle compagnie tecnologiche. All’Università di Bologna il coordinamento di uno studio, finanziato nell’ambito di Horizon Europe, per valutare quanto pesino le “influenze” su democrazie e mercati


Le attività di lobby di Meta, Amazon e Google sono finite nel mirino del Parlamento europeo per una presunta mancanza di trasparenza: secondo la denuncia presentata da tre eurodeputati al Transparency register dell’Ue, le tre big tech americane hanno finanziato un gruppo di pressione esterno per tentare di influenzare le decisioni dei parlamentari dell’Unione europea sul Digital markets act e sul Digital services act, ma non hanno comunicato con chiarezza le connessioni con questo gruppo e chi ne faceva parte, come rivelano i documenti visionati da Bloomberg.

I tre parlamentari accusano Meta, Amazon e Google di aver violato le regole sulla trasparenza nelle attività di lobby e chiedono al Trasparency register dell’Ue di revocare l’accesso delle tre aziende agli istituti di lobbying dell’Unione europea se la presunta violazione sarà dimostrata.

Indice degli argomenti

  • L’accusa: “Lobby poco trasparente”

  • Al via lo studio su big tech e democrazie

  • Il caso Usa: “Nella Ftc regolatori e azionisti”


L’accusa: “Lobby poco trasparente”

Le Big tech Usa avrebbero condotto la loro azione di lobby sotto il cappello di un gruppo, il Connected commerce council, che si presentava come rappresentante delle piccole e medie imprese. I tre eurodeputati che hanno lanciato le accuse affermano che il Parlamento europeo fosse all’oscuro che i messaggi di questo Council durante le fasi finali del voto sulle due direttive sul mercato e i sevizi digitali arrivassero in realtà dai colossi tecnologici Google, Amazon and Meta.

Dopo il voto su entrambe le leggi abbiamo appreso che i finanziamenti e l’origine dei messaggi arrivavano da una parte diversa con obiettivi diversi”, si legge nel documento riportato anche dalla testata Politico.

Amazon ha negato di collaborare con il Connected commerce council sui temi della politica europea, mentre ha ammesso di lavorare con il Council negli Stati Uniti. Google ha invece replicato che la sua cooperazione con il Council “è dichiarata in modo chiaro e trasparente”. Al momento nessun commento è arrivato da Meta.

Al via lo studio su big tech e democrazie

È dunque quanto mai attuale l’avvio di uno studio, coordinato dall’Italia, su quanto e come ci influenzano i colossi del web. Ad annunciarlo sono gli studiosi di Inca-INcrease Corporate political responsibility and accountability, nuovo progetto Horizon Europe, finanziato dalla Commissione europea con un budget di tre milioni di euro e coordinato dall’Università di Bologna. Il focus è sull’influenza che le big tech posso avere sulle democrazie e sulle istituzioni europee (inclusa l’attività di lobby) ma anche su come promuovere una maggiore responsabilità e inclusione democratica nei processi economici indotti dalle trasformazioni digitali.

Il progetto – che coinvolge 12 partner di tutta Europa tra Atenei, fondazioni e centri di ricerca, ed un Associated partner svizzero- andrà ad esplorare le radici storico-sociali alla base della crescita delle piattaforme digitali e dell’erosione di un’economia di mercato coordinata. Da un lato saranno raccolti dati sulle attività di lobbying delle grandi piattaforme online, sulle loro relazioni industriali e sulla loro capacità di influenzare l’opinione pubblica, mentre dall’altro verranno promosse azioni partecipative per il potenziamento dei processi democratici e l’impegno diretto dei cittadini.

Le grandi piattaforme come Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft stanno diventando sempre più infrastrutture per la formazione delle opinioni, l’organizzazione del lavoro e il dibattito politico”, spiega Edoardo Mollona, professore al Dipartimento di Informatica-Scienza e Ingegneria dell’Università di Bologna, che coordina il progetto. “Di conseguenza, il loro crescente potere nel plasmare e influenzare tali questioni attraverso un’intensa attività politica, le relazioni industriali e l’impatto culturale ha aperto un ampio dibattito sul modo in cui affrontare queste trasformazioni”.

Secondo gli studiosi le difficoltà nel regolare il potere aziendale delle grandi piattaforme digitali, che si diffonde attraverso la politica, l’economia e la cultura, sembrano ridurre progressivamente la capacità delle democrazie e istituzioni liberali europee di sostenere un’economia di mercato coordinata. Per questo, il progetto Inca punta a ricostruire la fiducia dei cittadini europei nelle istituzioni proponendo nuovi modelli di governance. Gli studiosi intendono sviluppare soluzioni per coniugare la crescita delle piattaforme digitali con l’inclusione sociale e la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Oltre a questo, verranno realizzate azioni per stimolare modelli di business e relazioni industriali alternativi in grado di rendere le piattaforme digitali responsabili dell’equità sociale, preservando al contempo il loro potenziale innovativo.

Il caso Usa: “Nella Ftc regolatori e azionisti”

Intanto negli Usa il Wall Street Journal denuncia una sovrapposizione di interessi per il regolatore antitrust Federal trade commission, l’autorità che ha lanciato varie inchieste nei confronti delle big tech (e non solo). Se da un lato la Ftc ha dato la caccia alle possibili infrazioni da parte dei colossi della SiliconValley, dall’altro ha attivamente investito in queste aziende: un terzo dei suoi 90 alti funzionari possedeva o negoziava azioni in società che stavano subendo una revisione o un’indagine sulle operazioni M&A da parte della Ftc, secondo l’analisi svolta dal WSJ sulle informazioni finanziarie pubblicate da 50 agenzie del governo federale americano relative agli anni dal 2016 al 2021. I funzionari della Ftc possedevano azioni in 22 delle circa 60 grandi società contro cui la Ftc ha aperto dossier nel periodo in esame.

Gli alti funzionari della Ftc mostrano anche una più intensa attività di trading (più scambi di azioni, obbligazioni e fondi), in media, rispetto ai funzionari di qualsiasi altra grande agenzia. E hanno investito in particolare proprio nelle grandi aziende tecnologiche: quasi uno su quattro dei principali funzionari della Ftc possedeva o negoziava azioni individuali di big tech come Amazon, Facebook di Meta, Google di Alphabet, Microsoft e Oracle.

Un presidente della Ftc possedeva titoli di Microsoft, Oracle e At&t mentre l’agenzia stava conducendo indagini sensibili sui settori della tecnologia e delle telecomunicazioni.

Il capo della divisione internazionale della Ftc ha acquistato e venduto azioni di Facebook attraverso un consulente finanziario mentre il suo ufficio si coordinava con rappresentanti delle forze dell’ordine all’estero su un’indagine che coinvolgeva Facebook.

Il WSJ precisa che, benché la legge statunitense vieti ai dipendenti federali di occuparsi di regolare settori e aziende in cui hanno interessi finanziari significativi, gli investimenti rilevati dall’analisi condotta dal quotidiano economico rientrano nella legalità perché la stessa legge concede delle deroghe che permettono ai funzionari federali di possedere titoli che si sovrappongono con il loro lavoro: investimenti in azioni individuali fino a un massimo di 15.000 dollari o fino a 50.000 dollari in specifici fondi non sono considerati conflitto di interesse.

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