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La fine della net neutrality: una questione di lobbying?

Aggiornamento: 22 mar 2022

(Francesco Angelone) Seppur nato da un progetto del Ministero della Difesa Usa, internet – da quando è diventato di ampio accesso – è sempre stato considerato un baluardo della democrazia, un luogo dove non esistono caste e tutti sono in qualche modo uguali. Corollario di questo principio, oltre che sua pratica applicazione, è la net neutrality: tutto il traffico su Internet deve essere trattato allo stesso modo, senza corsie preferenziali.

Da diverso tempo, ormai, negli Usa si parlava di una possibile rivisitazione di questo principio, permettendo alle società che forniscono le connessioni online (i cosiddetti provider) di trattare in modo diverso i contenuti che circolano sulle loro reti e, conseguentemente, proporre offerte commerciali differenziate per il servizio prestato. Ora tutto questo è realtà. Giovedì 14 dicembre la Federal Communications Commission (FCC), agenzia governativa che ha il compito di vigilare sulle comunicazioni, ha votato (3 a 2) per porre fine alla net neutrality. L’agenzia è composta da 5 membri, 3 repubblicani (i favorevoli) e 2 democratici (i contrari) e il suo presidente, Ajit Pai, è stato nominato da Trump. Il piano approvato dalla FCC centra l’obiettivo di rimuovere i vincoli normativi posti durante l’amministrazione Obama e ‘ristabilire la libertà su internet’.

Ma la libertà di chi? Chi sostiene la bontà di questa decisione, infatti, crede che la rete fino al 2015 (quando la FCC di colore politico opposto intervenne a garantire la neutralità) non avesse problemi di alcun tipo circa la disparità di trattamento dei siti e dei servizi. Chi vi si oppone, invece, pare chiedersi soprattutto la libertà di chi questa decisione dell’agenzia federale vada a tutelare. Secondo questi, i provider - ovvero colossi industriali del calibro di AT&T, Verizon e Comcast - potranno controllare il traffico online e condizionare i loro clienti privilegiando alcuni contenuti su altri.

Come se non bastasse, negli Usa alcuni di questi fornitori di accesso a internet sono anche distributori di contenuti. Si pone, così, il problema di un potenziale conflitto di interessi, materia sulla quale dovrà esprimersi un’altra agenzia federale, la Federal Trade Commission. Contrappeso di questa liberalizzazione del sistema sarà la trasparenza che la FCC richiederà ai provider per tutelare i consumatori e permettere agli operatori più piccoli di aver accesso ad informazioni che possano promuovere l’innovazione delle infrastrutture di cui dispongono. Ma anche sull’effettivo e corretto funzionamento di questo meccanismo permangono dei dubbi.

E così per le conseguenze di questa decisione. Per i sostenitori della neutralità della rete, è stata proprio la parità nel trattamento dei contenuti a favorire il successo di Internet, la trasformazione di alcune imprese in colossi globali e allo stesso tempo a garantire la sopravvivenza dei ‘pesci più piccoli’. In qualche modo, quindi, il piano della FCC ucciderebbe la rete delle reti. Gli altri, tra cui lo stesso Pai, sostengono che le nuove regole consentiranno agli ISP (Internet Service Provider) di aumentare i ricavi, in modo da potere investire per rafforzare le reti e offrire servizi migliori ai clienti, anche nelle aree geografiche dove si guadagna meno.

La risoluzione dell’agenzia sulle comunicazioni arriva al termine di una quasi estenuante attività di pressione che entrambe le parti hanno condotto. Secondo il Center for Responsive Politics, organizzazione attentissima a queste questioni, negli ultimi dodici mesi la FCC ha ricevuto un totale di circa cento report sul tema. Imprese di telecomunicazioni, associazioni di categoria e gruppi di advocacy contrari alla neutralità della rete secondo queste stime hanno affrontato una spesa totale di circa 110 milioni di dollari. Inferiore, pari a circa 39 milioni di dollari, la spesa di coloro che hanno fatto pressione per mantenere in vigore le regole fissate nel 2015. Tra questi, imprese del settore tech e i colossi Amazon, Facebook e Twitter. Un flusso di denaro, quello elargito da entrambe le fazioni, che ha preso la direzione sia dei democratici che dei repubblicani. 495 su 535 sono, infatti, i membri del Congresso che hanno ricevuto fondi da questi gruppi, a dimostrazione di quanto il tema sia tenuto in considerazione tanto dagli operatori del settore che dai policy-maker.

Una curiosità: Ajit Pai, presidente della FCC, in precedenza ha lavorato per Verizon. Altra curiosità: una delle organizzazioni più attive contro la net neutrality è stata la no-profit American Commitment, che ha svolto un lavoro capillare per creare consenso sui social network e che ha beneficiato di fondi a gruppi di decine di migliaia di dollari da donatori perlopiù sconosciuti (essendo questo permesso dal suo particolare status giuridico). Il presidente di questa no-profit, Phil Kerpen, presiede la Internet Freedom Coalition, una federazione al cui interno siedono diverse associazioni di cui sono membri Verizon, Comcast, Sprint e AT&T.

E al di qua dell’oceano? Come ha riportato La Stampa, la presidente della Camera Laura Boldrini, tra le principali sostenitrici della Dichiarazione dei Diritti di Internet nel 2015, ha definito l’abolizione della net neutrality negli Stati Uniti come un fatto «grave», ricordando come non sia democratico privilegiare certi contenuti rispetto ad altri, discriminando e aumentando sensibilmente i costi per i consumatori. In Europa, il Parlamento ha invece votato un regolamento sulle telecomunicazioni che, oltre ad avere eliminato il roaming per la telefonia mobile nei Paesi dell’Unione, ha anche previsto più garanzie per la neutralità della rete. Con buona pace delle lobby degli operatori. Che sia questa “the next big thing” di cui discutere in un negoziato tra USA e UE per regole comuni sulla net neutrality?

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